NON CHIAMATELA FESTA DELLA DONNA
L’8 Marzo si celebra in Italia in maniera continuativa dall’immediato dopoguerra, dopo i disastri del ventennio fascista. Ottenuto il diritto di voto, le donne chiedono di più. Iniziano a scendere in piazza per rivendicare la soluzione dei problemi antichi che le affliggono, in primo luogo per emanciparsi in una struttura sociale che le mantiene nella condizione di assoggettamento alle decisioni degli uomini.
Così si torna a celebrare la Giornata internazionale di lotta e di festa della donna, questa la denominazione completa ed esatta di una ricorrenza che nel corso degli anni troverà una sintesi nelle sue ultime tre parole. Il momento della lotta, che doveva precedere e accompagnare quello della festa, risulta al giorno d’oggi ampiamente accantonato in favore di una riduzione a evento commerciale e di evasione.
Leggenda vuole che l’idea di una giornata dedicata alle donne si facesse risalire all’iniziativa della socialista tedesca Clara Zetkin che, nel 1910, a Copenhagen, istituì la ricorrenza fissando la data all’8 Marzo per commemorare la tragedia di 129 operaie morte nell’incendio di una fabbrica newyorkese, causata dal padrone che le aveva chiuse dentro perché avevano osato scioperare.
Verso la metà degli Anni ’80, Marisa Ombra, staffetta partigiana e oggi vicepresidente nazionale dell’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e Tilde Capomazza, regista televisiva, decisero di vederci più chiaro. Innanzitutto trovarono traccia di giornate della donna in Europa e America sin dai primi del secolo e ancora sullo scorcio dell’Ottocento ad opera del movimento delle suffragette in Inghilterra. La data del 1910 segnò solo la proposta di istituire una ricorrenza fissa, ma non si fece nulla di concreto fino al termine della Prima guerra mondiale.
All’inizio degli Anni ‘20 la Zetkin è nel vertice del Segretariato per le donne, costituito nella 3^ Internazionale, ed è proprio la seconda conferenza delle donne comuniste a chiudersi, il 14 giugno 1921 a Mosca, con un documento finale che recita: «La Conferenza adotta la data dell’8 Marzo come giornata internazionale dell’operaia». Il giorno fu scelto per ricordare la prima manifestazione, nell’inverno del ’17, delle operaie russe che, esasperate dal freddo, dalla fame e dall’assenza di figli e mariti chiamati al fronte, scesero compatte per le vie di San Pietroburgo per protestare contro il regime zarista. Era il 23 febbraio, le prove generali della Rivoluzione d’ottobre, e quella data del calendario giuliano in vigore in Russia corrisponde all’8 marzo in Occidente.
La ricostruzione è comprovata dal fatto che non c’è traccia di un incendio con vittime donne nelle cronache americane del 1908. L’ipotesi più logica per questa sovrapposizione e confusione di date simboliche, è che il movimento operaio e femminile avesse bisogno di una aggregazione ampia, soprattutto all’Ovest, e che quindi il “santino” delle operaie sacrificate sull’altare del capitalismo sfrenato funzionasse meglio dell’episodio rivoluzionario di matrice chiaramente sovietica.
Prima del ’46, in Italia, la Giornata internazionale della donna fu tenuta un’unica volta, proprio nell’anno della marcia su Roma, il 12 marzo 1922, prima domenica successiva all’8 marzo, su iniziativa del Partito Comunista d’Italia. La lunga parentesi imposta dal regime fascista si concluderà nei mesi terribili della Resistenza. Le donne sono parte attiva nella lotta di Liberazione nazionale, nel Nord organizzate con i G.D.D. (Gruppi di Difesa della Donna) in collegamento con il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale).
Oltre alle donne con incarichi propriamente militari, le staffette hanno tessuto con i loro spostamenti a piedi o in bicicletta, una capillare e fitta rete di comunicazione, di collegamento e trasporto di armi, indumenti e viveri. A ciò va aggiunto il lavoro più propriamente di soccorso dei feriti, l’identificazione e la composizione dei caduti e il sostegno ai familiari colpiti dai lutti. E ancora l’organizzazione di scioperi e sabotaggi nelle fabbriche, le manifestazioni contro il caro vita, gli assalti ai panifici e ai magazzini di viveri.
35.000 partigiane combattenti, 20.000 staffette, 70.000 nei Gruppi di Difesa della Donna, 683 cadute o passate per le armi, quasi 2.000 ferite e 5.000 imprigionate, condannate e torturate, altre 2.000 deportate. Un ruolo fondamentale ed esteso dal piano pratico a quello ideale e simbolico, tanto essenziale nei venti mesi di lotta clandestina, tanto sottovalutato poi, a Liberazione avvenuta quando a prevalere nei riconoscimenti dell’attività partigiana fu una logica prettamente militare e quindi maschile.
Da queste esperienze nasce a Roma nel settembre del ’44 l’U.D.I. (Unione Donne Italiane) con l’obiettivo di «unire tutte le italiane in una forte associazione che sappia difendere gli interessi particolari delle masse femminili e risolvere i problemi più gravi e urgenti di tutte le lavoratrici e delle madri». Il primo congresso sancisce la fusione con le militanti dei G.D.D.
Negli anni ‘50 sarà quasi esclusivamente l’U.D.I. a riunire e mobilitare le donne e a condurre le lotte per la parità di salario, l’istituzione degli asili nido, il divieto di licenziamento al momento del matrimonio. In seguito, nel ’68, e soprattutto alla fine degli anni ‘70, nasceranno i nuovi gruppi di donne che daranno vita al movimento femminista. Saranno le battaglie per il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia e la richiesta di una legge contro lo stupro a tenere unite militanti storiche e giovani leve.
L’origine della mimosa, come segno iconografico distintivo della Giornata internazionale di lotta e di festa della donna, risale con certezza alla nascita dell’8 Marzo in Italia nel 1946, ad opera delle militanti dell’U.D.I. ma già l’anno precedente la data era stata celebrata in alcune zone liberate del Paese. Furono le ragazze romane, assieme alle costituenti Teresa Mattei e Rita Montagnana, ad avere l’idea di scegliere il vivace e profumatissimo fiore giallo che sbocciava proprio in quel periodo dell’anno e aveva il vantaggio di poter essere colto con facilità, gratis, al contrario di oggi, nei giardini pubblici e nei campi.
(riduzione da articolo Patria Indipendente)
Le nostre conquiste le dobbiamo a tutte queste donne combattive che hanno affermato, con la loro battaglia, anche a rischio della vita, i principi generali di democrazia per tutti, ma anche la parità dei diritti per le donne.
A Cinisello Balsamo, tra le tante coraggiose partigiane, staffette e antifasciste, vogliamo ricordarne due.
Dina Cereda che, con il nome di battaglia Angela, porta ordini, armi, generi alimentari e vestiario in Valsassina e in Valtellina. Collabora con il C.L.N. portando in bicicletta ordini e stampa clandestina dal comando di Desio a Cinisello Balsamo.
C’è un episodio che Dina ricorda ancora oggi con orgoglio. Siamo ormai vicini alla Liberazione, ma fascisti e nazisti occupano ancora la nostra città. Bisogna ricordare la Giornata internazionale di lotta e di festa della donna e Dina non vuole attendere. Nella notte tra il 7 e l’8 marzo 1945, sui muri di Cinisello Balsamo vengono affissi numerosi manifestini che ricordano la Giornata internazionale di lotta e di festa della donna, inneggiano all’Italia libera e alle Brigate Garibaldi. Il lavoro viene portato a termine con coraggio proprio da Dina e da altri partigiani, con un’affissione notturna molto pericolosa che assume il sapore della beffa. La mattina la gente scorge i volantini incollati nei luoghi più frequentati: in piazza a Cinisello, alla fermata del tram, ma soprattutto sui muri dell’ex Casa della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio), proprio dove c’è il presidio dei repubblichini.
Ines Gerosa lavora alla Breda e agli inizi di marzo aderisce allo sciopero contro il caro vita e contro gli occupanti nazisti. Per questa “colpa”, a soli 19 anni, viene arrestata in casa di notte e deportata ad Auschwitz con altre 4 donne della nostra città. Lì conosce l’orrore, la violenza, la fame e la paura. Le sofferenze mineranno per sempre il suo fisico e passerà molta parte della sua vita ammalata.
Ines era nata proprio l’8 Marzo, ora riposa nel campo partigiani del cimitero di Cinisello. A lei vanno simbolicamente le nostre mimose.
Le donne del Direttivo A.N.P.I.
(Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)
sezione di Cinisello Balsamo
Nessun commento:
Posta un commento